mercoledì 25 marzo 2009

INIZIATIVA

VIAGGIO INTORNO AL TERZO MILLENNIO:
IL MONDO E I SUOI PROBLEMI

Care amiche e cari amici,
iniziamo questo nuovo ciclo di incontri, affrontando il tema della crisi economica internazionale: un primo incontro a Marzo su che cos’è, cause ed effetti ed eventuali responsabilità individuali (aspetti suggeriti da Mirko Bonomi, Stefano Cavalli, Sara Mantovani, Fabrizio Molteni, Marta Morselli e Gabriella Paoli) e un secondo incontro in Aprile sulle prospettive e le alternative. Gli incontri saranno di Martedì con inizio effettivo alle 20.30 (proposta di Serina Brangi, Stefano Cavalli, Maria Frassine, Riccardo Guardini e Alberto Hoch). Il tutto secondo il seguente programma:

Martedì 31 Marzo 2009, ore 20.30 precise

Acli, via Corsica 165, Brescia

LA CRISI ECONOMICA INTERNAZIONALE: QUESTA (S)CONOSCIUTA


Relatori:

Carmine Trecroci
professore di Economia dei mercati finanziari nella Facoltà di Economia dell’Università degli studi di Brescia

Andrea Fracasso
docente nella Facoltà di Economia dell’Università degli studi di Trento e nella Scuola di studi internazionali di Trento

Moderatore:

Gian Carlo Costadoni
Icei


L’ingresso è libero fino a esaurimento dei posti disponibili.


I PROSSIMI APPUNTAMENTI

Martedì 28 Aprile 2009 LA CRISI ECONOMICA E FINANZIARIA: QUALI PROSPETTIVE E ALTERNATIVE PER UNA REVISIONE ECONOMICA, POLITICA E CULTURALE?

LA CRISI ECONOMICA INTERNAZIONALE: QUESTA (S)CONOSCIUTA
(Brescia, 31 Marzo 2009)

La grande crisi del 2009
Carmine Trecroci
professore di Economia dei mercati finanziari nella
Facoltà di Economia dell’Università degli studi di Brescia
trecroci@eco.unibs.it

1. 2007-2009, Cronaca di una crisi annunciata? (da pochi)
1.1 L'impatto reale della crisi e le responsabilità
A scatenare il rallentamento economico più grave da almeno una generazione è stato un gigantesco collasso finanziario. E' quindi opportuno chiarire due aspetti fondamentali. Primo, il sistema economico mondiale comunque supererà la forte contrazione di consumi, investimenti, produzione e redditi che abbiamo appena cominciato a osservare. La discesa dei prezzi di molte materie prime (petrolio in testa) e di tanti beni e servizi ha già fatto crescere il potere d'acquisto di salari e stipendi, il che spingerà a un certo punto verso una forte ripresa dei consumi; meno chiaro l'effetto dei programmi straordinari di spesa pubblica, o la dinamica di medio termine dei mercati azionari.
Secondo, l'Italia è tra i Paesi che soffriranno di più nel medio-lungo termine, e non solo negli anni della "crisi", perchè il forte rallentamento congiunturale che interessa trasversalmente tutti i sistemi economici si innesta su una persistente debolezza strutturale del nostro Paese, che lo espone più di altri alle fluttuazioni cicliche. Per semplicità, il mio intervento è centrato soprattutto sulla dinamica della crisi in generale, ma non mancherò di fare riferimenti anche alle specificità riguardanti il nostro Paese.
In termini estremamente sintetici, a chi si possono attribuire le maggiori responsabilità? Ci sono almeno tre sospetti, a mio avviso in ordine crescente di gravità:
1) Sofisticazione finanziaria. Strumenti troppo complessi hanno consentito un trasferimento troppo facile e poco trasparente del rischio.
2) Carenza di regolamentazione e vigilanza. Derivati "selvaggi" ed eccesso di indebitamento. Fino al 2003-4, per le imprese finanziarie regolamentate dalla SEC, era normale una leva di 11-12 (rapporto tra debiti e capitale azionario). Nel 2007, media di 30, con casi di 33 (in questi casi, una svalutazione delle attività del 3% rende insolvente una banca). Crescita eccessiva dei subprime, fino a diventare rischio sistemico. Infine, i casi à la Madoff...
3) Eccesso di liquidità (politica monetaria eccessivamente espansiva), significativo dal 1997-98, drammatico dal 2002 al 2005. Alla base degli squilibri globali sui mercati e nei consumi. Anticipato da un consistente ma inascoltato numero di studiosi (Borio, Lowe, White, Shiller, Roach, Roubini, Taylor...)

1.2 Squilibri, bolle e crisi finanziarie
Dato il chiarissimo legame tra crisi finanziaria e rallentamento reale, è appropriato partire dalla "bolla" sui mercati finanziari che ha preceduto il generalizzato collasso finanziario vissuto tra 2008 e inizio 2009 (la cosiddetta "bolla").
La successione bolla-collasso in atto è particolarmente stretta (rapida) ed estesa (pervasiva), ma tutt'altro che nuova. Si tratta di un fenomeno ricorrente nella storia, un elemento intrinseco, endogeno, dei sistemi economici (non solo quelli capitalistici). La diffusa percezione di un contesto macroeconomico stabile e persistentemente orientato alla crescita ha generato una parallela distorsione nella percezione del rischio, il che si è riflesso in un generalizzato aumento dell'indebitamento rispetto ai mezzi propri, soprattutto nel caso delle famiglie e delle banche. Il finanziamento a breve termine di posizioni (investimenti) a lunga scadenza era diventata la regola, anzichè una pericolosa eccezione. A questo punto, la crescente disponibilità di credito ha spinto verso l'alto le quotazioni di molte attività, da quelle immobiliari a quelle azionarie, creando e gonfiando così la bolla. Il culmine della bolla si ha quando la capacità di ripagare il debito diventa crucialmente dipendente dalla capacità di vendere l'attività a un prezzo superiore, a chi per comprarla deve indebitarsi ancora di più presso un prestatore ottimista.
Naturalmente, il gioco non può continuare all'infinito: a un certo punto la bolla scoppia e la piramide dell'indebitamento collassa. I primi segni dell'imminente disastro si diffusero proprio in USA e UK, dove tra il 1994 e il 2007 si era avuta robusta crescita economica e bassa inflazione, condizioni perfette per la genesi di una successione bolla-collasso.

2. Cosa succede quando la "grande bolla" scoppia?
A un certo punto, i debitori esauriscono le garanzie collaterali, e sono costretti a liquidare attività per restituire il capitale di debito, imprimendo ulteriore pressione al ribasso ai valori di mercato. Qualunque singola impresa può ridurre il proprio indebitamento attraverso la vendita delle proprie attività; ma come fa l'intero sistema a "dimagrire"? Ci sono due modalità estreme, e un certo numero di combinazioni intermedie.
La prima modalità è il collasso finanziario generalizzato, con conseguente default sui debiti di ogni genere. Ci siamo andati molto vicini, forse più di una volta, negli ultimi mesi, e non si può ancora definitivamente esorcizzare dalla prospettiva.
Il secondo modo in cui lo stato patrimoniale privato può dimagrire in aggregato è attraverso una corrispondente espansione di quello pubblico, ossia della somma dei bilanci di Tesoro, Banca Centrale e agenzie statali di ogni genere. Di fatto è quanto sta accadendo da più di un anno e mezzo, in proporzioni senza precedenti sia negli USA che in Europa. Alternative? Semplicemente nessuna...

3. L'intervento degli stati
Il credito pubblico è stato ampiamente utilizzato per controbilanciare le perdite delle istituzioni finanziarie e stabilizzare i mercati creditizi. Non ci sono state "solo" iniezioni di liquidità, ma anche, e in misura crescente, di capitale azionario a fini di ri-patrimonializzazione. Per risolvere efficacemente il problema, ci sono essenzialmente tre strade, ciascuna con pregi e difetti, e variamente combinabili:
• Nazionalizzazione totale o parziale (Northern Rock, RBS, Fannie Mae, Freddie Mac, TARP2, etc.)
• "Bad Bank" (Mellon Bank, 1988; Svezia '90)
• Garanzie statali su attività "tossiche" (in parte già applicata nei casi di Bear Stearns, BofA e Citigroup)
Esistono però due importanti controindicazioni all'intervento statale a sostegno delle istituzioni bancarie:
1) Azzardo morale: se lo Stato assicura un suo intervento "a prescindere", c'è un incentivo ad assumere posizioni troppo rischiose (eccessivo indebitamento)
2) Equità: Se il settore bancario merita il salvataggio, perchè non anche quello assicurativo, quello commerciale, quello manifatturiero, quello agricolo, ecc?
Considerazioni profondamente valide, ma sistematicamente superate dalla profondità del collasso. Elemento solo vagamente discusso in Europa, completamente assente dal dibattito in Italia: i contribuenti stanno diventando investitori involontari nei titoli del settore finanziario. Come tali, essi meriterebbero che gli investimenti venissero effettuati secondo principi di prudenza, moderazione e selettività, ma anche in modo da massimizzare il rendimento, anzi il dividendo che legittimamente si dovrebbero aspettare di percepire al termine del periodo di investimento.
I Governi di molti paesi stanno rapidamente espandendo (ma in misura differenziata) i loro bilanci per sostenere la domanda aggregata. In molti casi, il debito pubblico crescerà nei prossimi anni ai tassi più sostenuti dalla seconda guerra mondiale. In tutti i casi l'effetto negativo sulle finanze pubbliche non dipenderà in misura primaria dalla maggiore spesa pubblica a sostegno dell'economia, bensì dalle entrate automaticamente minori e dalle spese maggiori per effetto del rallentamento congiunturale. In generale, sono attesi effetti molto minori di quelli sperati. Inoltre, c'è il rischio che le spese pubbliche sottraggano risorse a impieghi privati più produttivi. Le migliori chances le hanno:
1) Investimenti in infrastrutture in grado di migliorare significativamente e permanentemente la produttività futura;
2) Investimenti di sostegno alla "fiducia".
Quindi, un massiccio stimolo fiscale e monetario è condizione necessaria, ma non sufficiente, per la ripresa. Molto più determinante, il recupero della fiducia collettiva può passare solo attraverso una ricostruzione profonda e senza compromessi delle infrastrutture immateriali del sistema finanziario.

Cause, effetti e rischi della crisi economica
Andrea Fracasso
docente nella Facoltà di Economia dell’Università degli studi di Trento
e nella Scuola di studi internazionali di Trento
andrea.fracasso@unitn.it

La crisi economico-finanziaria in corso si sviluppa nel centro del sistema finanziario internazionale (gli Stati Uniti). Nasce con l’insorgere di problemi in un numero ristretto di mercati e di operatori finanziari, si trasforma in una crisi di insolvenza bancaria e, più di recente, degenera in una conclamata crisi economica globale. La sua specificità più importante, e anche ciò che la rende così complessa, risiede nella triplice natura delle sue cause che sono infatti macroeconomiche, finanziarie e istituzionali. Questa molteplicità di cause ha a lungo favorito il palleggio di responsabilità tra i vari attori coinvolti nella sua gestione e questo ha a sua volta contributo al diffondersi dei problemi a un numero crescenti di settori e di paesi.
Un primo canale macroeconomico di incubazione della crisi può essere individuato nella politica monetaria seguita dagli Stati Uniti alla fine degli anni ’90. Per scongiurare una recessione e il rischio di deflazione, la Fed di Alan Greenspan ha sostenuto la crescita del valore delle abitazioni e dei consumi americani attraverso tassi di interesse particolarmente contenuti, passati dal 6,5% di fine 2000 all’1% nel giugno 2003. Questa politica ha limitato gli effetti reali del crollo delle Borse (legato allo scoppio della bolla della New Economy) e degli attacchi dell’11 Settembre. Tuttavia, essa ha anche contribuito a gonfiare i prezzi immobiliari (cresciuti di quasi il 100% tra il 2000 e il 2006) e ad abbassare il premi al rischio dei titoli meno sicuri. Questo ha incoraggiato, da un lato, l’erogazione di ingenti prestiti a una gamma sempre più ampia e rischiosa di individui e, dall’altro, il crescente indebitamento delle stesse banche erogatrici. Da qui il boom dei mutui subprime, ovvero prestiti ipotecari concessi a individui dallo scarso merito di credito, cresciuti dall’8% al 20% di tutti i mutui residenziali americani nell’arco di meno di un decennio.
Un secondo aspetto macroeconomico rilevante è costituito dagli squilibri commerciali e finanziari globali. L’enorme deficit commerciale statunitense (arrivato al 6% sul Pil nel 2006) è stato finanziato dai paesi emergenti (tra cui la Cina) e dai paesi esportatori di petrolio. Questi paesi, infatti, intenti a stabilizzare il cambio delle loro valute nei confronti del dollaro attraverso l’accumulazione di riserve valutarie, hanno garantito copiosi flussi di capitali verso gli USA. Ciò ha mantenuto i tassi a lungo termine americani molto bassi, favorendo la continuazione degli squilibri e la crescita dell’indebitamento del paese nel suo complesso.
La crescita dei prezzi delle case e la concessione di mutui per il loro acquisto si sono alimentate a vicenda. Un mercato immobiliare in crescita ha generato un forte effetto moltiplicativo sul credito: prezzi crescenti delle case aumentano il valore delle garanzie e quindi permettono di ottenere linee di credito più ampie; l’accresciuta disponibilità alimenta la bolla immobiliare, e così via. Valori immobiliari crescenti, quindi, hanno determinato il formarsi del tipico processo di aspettative auto-realizzantesi che è alla base di tutte le bolle speculative.
Un andamento di tal genere si è verificato anche per il debito contratto dagli stessi intermediari finanziari americani. Nel 1980 il debito del settore finanziario statunitense era un decimo di quello del settore industriale, mentre nel 2007-2008 ne rappresentava circa la metà. Gli intermediari finanziari hanno costruito i loro profitti e le loro operazioni su una rete sempre più complessa di debiti (leverage) e hanno stretto, più o meno consapevolmente, intrecciate connessioni tra loro. Questo fenomeno è stato reso più rapido dall’attività di cartolarizzazione dei prestiti: i crediti vengono raggruppati e venduti a una società che finanzia il loro acquisto con l’emissione di titoli obbligazionari garantiti dai flussi di reddito provenienti dai prestiti sottostanti. Questi titoli strutturati vengono divisi in fasce il cui rendimento dipende dal grado di rischio: la fascia più rischiosa (toxic) è quella che soffre per prima e maggiormente se i titolari dei prestiti sottostanti divengono insolventi. Questo strumento finanziario permette di trasferire il rischio da chi presta (banca) ai molti investitori che comprano i titoli cartolarizzati e, per questo, aumenta la capacità di prestito degli istituti finanziari. Questo meccanismo, tuttavia, ha tre chiari limiti. Esso funziona correttamente solo se le banche mantengono alta l’attenzione sulla qualità dei loro mutui e se non investono nei titoli cartolarizzati. Infine, il rischio sistemico aumenta perché il volume complessivo di titoli strutturati diviene molto più ampio del valore dei crediti cui essi fanno riferimento.
Sul piano istituzionale molto si è detto sulle colpe dell’eccessiva deregulation, sul ruolo delle agenzie di rating, sulla remunerazione dei manager degli istituti finanziari. La ricerca di profitti a breve termine, gli incentivi perversi e la scarsa comprensione della natura sistemica dei rischi hanno aumentato il complessivo grado di rischio degli investimenti finanziari. A far crescere l’incertezza sull’entità e sulla distribuzione del rischio in capo a diversi soggetti hanno contribuito altri tre fattori: i) non tutti gli operatori erano sottoposti alla supervisione delle autorità di vigilanza, ii) i legami tra istituti non apparivano in bilancio, iii) le autorità di vigilanza erano numerose e poco coordinate. Il rapido sviluppo del settore finanziario nel mondo è avvenuto senza un’adeguata ristrutturazione dei meccanismi (nazionali e internazionali) di regolamentazione e vigilanza. I problemi di Bear Stearns (giugno 2007), la scomparsa delle banche di investimento, i problemi delle banche europee, le difficoltà delle compagnie assicurative (AIG) e infine il crack di Lehman Brothers (15 settembre 2008) hanno messo in evidenza la complessità e la fragilità del sistema finanziario mondiale e la necessità di una vigilanza maggiore e soprattutto migliore.
L’aumento dei tassi di interesse negli USA, il generalizzato calo del prezzo delle case americane dalla metà del 2006 e l’aumento delle insolvenze hanno rotto il meccanismo alla base della bolla immobiliare. Il timore di una diffusa insolvenza dei mutuatari ha spinto al ribasso i prezzi dei titoli finanziari costruiti sui mutui. La spirale ascendente della bolla si è così ripetuta in discesa con un crollo vertiginoso nel valore dei titoli e nei bilanci delle banche. Molte banche hanno infatti cercato di liquidare parte dei titoli in loro possesso per evitare di portare in bilancio delle perdite eccessive. Lo sforzo è stato vano e ha portato al congelamento (nessun acquirente, solo venditori, nessun prezzo) dei mercati su cui questi titoli erano scambiati. L’incertezza complessiva sui titoli strutturati e sullo stato di salute delle banche ha giocato un ruolo fondamentale nella propagazione della crisi. I valori finanziari sono divenuti estremamente volatili (basti pensare alle borse) e molti operatori hanno incontrato difficoltà a raccogliere nuovi finanziamenti. La disponibilità delle banche a prestarsi denaro vicendevolmente e a concedere credito alle imprese (credit crunch) è diminuita con l’aumento dell’incertezza. Il crollo dei consumi, il calo del prezzo delle abitazioni e la mancanza di credito hanno penalizzato l’economia reale americana, poi quella europea e in parte anche quella dei paesi emergenti. La crisi finanziaria si è trasformata in crisi reale con crescenti fallimenti, licenziamenti, e disoccupazione.
A questo punto, tre sono i rischi maggiori. Il primo è che il circolo vizioso porti alla disintegrazione dei sistemi finanziari: il massiccio intervento di governi e banche centrali a favore delle banche e del credito serve a scongiurare il fenomeno. Il secondo è che i paesi, nel tentativo di promuovere la ripresa interna, adottino politiche unilaterali e protezionistiche. Ciò è avvenuto, almeno nella prima fase. Il terzo rischio è che la crisi travolga alcuni paesi emergenti, in particolar modo del Centro Europa, facendo così allontanare la speranza che questi possano trainare, insieme al piano di rilancio americano, l’auspicata ripresa economica mondiale. Le autorità, fortunatamente, si stanno muovendo per scongiurare tutti questi rischi.

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